CROI 2020 – Terzo Bollettino

  • 17 Marzo 2020
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TERZO BOLLETTINO

Stessa aspettativa di vita delle persone HIV-negative, molti meno gli anni in buona salute
Uno studio sull’aspettativa di vita ha confermato ancora una volta che le persone HIV-positive che iniziano in tempo la terapia antiretrovirale (ART) e hanno un buon accesso alle cure vivono quanto i pari HIV-negativi. I ricercatori hanno scoperto però che i soggetti HIV-positivi presentavano altri problemi di salute per un lungo periodo, con comorbidità significative che in media insorgevano 16 anni prima rispetto ai soggetti HIV-negativi.

Lo studio è stato presentato la scorsa settimana alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2020). I risultati sono stati presentati online, dopo l’annullamento dell’incontro previsto a Boston a causa delle preoccupazioni relative al nuovo coronavirus, COVID-19.

Lo studio statunitense in questione si è concentrato nello specifico su pazienti con accesso all’assistenza sanitaria: tutti i partecipanti erano assicurati al Kaiser Permanente, centro specialistico integrato di assicurazione sanitaria e assistenza medica attivo in California, Virginia, Maryland e Distretto di Columbia.

I dati si riferiscono a 39.000 persone HIV-positive e 387.767 persone HIV-negative. Ogni soggetto HIV-positivo è stato abbinato a 10 HIV-negativi in base a parametri di età, genere, etnia e anno di sottoscrizione.

I risultati presentano un’aspettativa di vita in costante aumento per le persone con HIV durante tutto l’arco dello studio, dal 2000 al 2016. Se nel 2000 l’aspettativa di vita delle persone con HIV era in media inferiore di 22 anni rispetto a quella delle persone HIV-negative della coorte, nel 2016 la differenza si è ridotta a 9 anni. Prima del 2016, se la persona con HIV avesse iniziato la terapia antiretrovirale con una conta dei CD4 superiore a 500, l’aspettativa di vita sarebbe stata presumibilmente un po’ più lunga rispetto a una persona HIV-negativa.

I ricercatori hanno anche investigato la presenza di indicatori di patologie croniche epatiche (tra cui epatite B o C), renali e polmonari, patologie cardiovascolari, ma anche diabete o cancro.

Dai risultati emerge che le persone affette da HIV vivono molti meno anni in salute rispetto alle persone non affette. Nel periodo dal 2014 al 2016, se una persona HIV-positiva di 21 anni poteva aspettarsi di arrivare all’età di 36 senza contrarre nessuna di queste patologie, un pari HIV-negativo poteva arrivare fino a 52. Nei pazienti con HIV, le patologie epatiche sono insorte 24 anni prima, le patologie renali 17 e quelle polmonari 16.

Il limite potenziale dello studio è però che i pazienti affetti da HIV tendono ad essere maggiormente monitorati rispetto alla popolazione generale, il che potrebbe portare ad una diagnosi delle patologie croniche in età più precoce.

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Abstract dello studio sul sito ufficiale della conferenza

Lo studio SEARCH rivela che l’approccio “test and treat” universale riduce l’HIV nei bambini
Una campagna “test and treat” condotta su larga scala in alcune località del Kenya e dell’Uganda ha determinato una riduzione della trasmissione di HIV da madre a figlio e un minor numero di neonati affetti da HIV al termine dello studio. I risultati dello studio SEARCH sono stati presentati a CROI 2020.

Nell’ambito dello studio SEARCH, i gruppi interessati sono stati randomizzati e sottoposti a uno standard di cura per l’HIV o a un programma basato su test intensificati, trattamento per tutti e invio semplificato all’assistenza sanitaria. Entro la fine del triennio di studio,l’80% delle persone affette da HIV nei gruppi d’intervento ha raggiunto la soppressione virale, rispetto al 68% dei gruppi sottoposti allo standard di cura.

SEARCH è il primo grande studio sull’approccio “test and treat” che riporta i propri risultati sulla trasmissione verticale (da madre a figlio), in cui si osserva come quest’ultima sia risultata più che dimezzata rispetto alla somministrazione dello standard di cura. Solo l’1,8% dei bambini nati da madri affette da HIV nei gruppi sottoposti all’intervento “test and treat” universale aveva contratto l’HIV al termine dello studio, contro il 4,4% dei nati nei gruppi di controllo.

I ricercatori indicano due possibili meccanismi attraverso i quali l’intervento previsto dallo studio può aver ridotto le infezioni da HIV nei neonati: diagnosi precoce e inizio del trattamento nelle donne che avevano contratto l’HIV durante il periodo di studio, e inizio precoce del trattamento nelle donne in gravidanza, grazie all’approccio universale.

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Abstract dello studio sul sito ufficiale della conferenza

Le vulnerabilità caratteristiche solo delle persone transgender richiedono interventi specifici e su misura
Durante CROI 2020, tante presentazioni si sono occupate della ricerca condotta sulla prevalenza HIV, i rischi, l’accesso e l’aderenza alle cure in donne e uomini transessuali negli Stati Uniti, in Kenya e in Zimbabwe.

A livello globale, le donne transessuali continuano a presentare alti tassi di HIV, con una prevalenza stimata intorno al 19%. Secondo alcune stime, la prevalenza negli uomini transessuali si attesta invece all’8%.

Il dott. Asa Radix ha presentato dati relativi a 557 uomini transessuali di New York, metà dei quali non si era mai sottoposta al test per l’HIV. In coloro che si erano sottoposti al test, la prevalenza HIV ruotava intorno al 3%, mentre coloro che avevano partner cisessuali uomini la prevalenza era nettamente superiore, intorno all’11%.

Il dott. Makobu Kimani del Kenya Medical Research Institute ha presentato dati relativi a una coorte in PrEP di undici donne transessuali e 42 uomini che fanno sesso con uomini (MSM) in Kenya. Dopo sei mesi, nessuno degli MSM presentava livelli di farmaco sufficienti per la protezione, mentre nelle donne transessuali si superava il 40%. Dai colloqui è emerso che l’aderenza più elevata nelle donne transessuali era dovuta ad una maggiore propensione all’assunzione di PrEP, alla consapevolezza percepita del rischio collegato all’HIV e alla sensazione che la PrEP affermasse in qualche modo l’identità di genere.

Circa la metà del campione era composta da sex workers, questione approfondita in dettaglio da Mariëlle Kloek della Erasmus University attraverso i dati raccolti in Zimbabwe. In un campione di 603 uomini cisessuali e sex workers transessuali, la prevalenza HIV è risultata molto alta: 38% nelle donne transessuali, 38% negli uomini transessuali e 28% negli uomini cisessuali.

La dott.ssa Catherine Lesko dalla John Hopkins School of Public Health ha presentato risultati incoraggianti relativamente alla ritenzione in cura nelle donne transessuali statunitensi. Dalle analisi della coorte NA-ACCORD si evince che una volta iniziato con successo il trattamento contro l’HIV, le donne transessuali raggiungevano risultati simili o migliori rispetto agli uomini cisessuali o alle donne

Il moderatore, il dott. Sari Reisner della Harvard University, ha sottolineato quanto sia importante fare una netta distinzione tra identità di genere e orientamento sessuale separando i diversi gruppi sia al momento della ricerca che dell’assistenza (per esempio le donne transessuali e gli uomini che fanno sesso con uomini), cercando di capire i bisogni e le esperienze specifiche di ogni caso. Il dott. Reisner ha inoltre affermato che adottare pratiche affermative di genere è essenziale per far sentire le persone transessuali accettate e rispettate.

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Il vaccino per l’HIV che genera anticorpi ampiamente neutralizzanti supera il primo studio sulla sicurezza negli esseri umani
A CROI 2020, la notizia di come gli scienziati abbiano sviluppato il primo vaccino che induce le cellule umane a generare anticorpi ampiamente neutralizzanti contro l’HIV.

La maggior parte dei vaccini funziona inducendo le cellule B del sistema immunitario a produrre anticorpi. Sebbene in passato alcune sperimentazioni avessero dimostrato che certi vaccini per l’HIV possono indurre risposte anticorpali al virus, questi si sono rivelati inefficaci (come nel caso del recente studio HVTN 702) o solo marginalmente efficaci (come nello studio sul vaccino RV 144).

Gli anticorpi ampiamente neutralizzanti (bNAb) potrebbero costituire la base di potenti vaccini e trattamenti, anche grazie alla loro azione contro un’ampia varietà di ceppi virali. L’anno scorso, un vaccino oggetto di studio ha indotto con successo la produzione di bNAb nelle scimmie. Lo studio è al momento in corso sugli esseri umani.

Quest’anno, a CROI è stata presentata una tecnologia diversa: uno studio del National Institutes of Health degli Stati Uniti che ha utilizzato un vaccino a vettore virale. Si tratta del guscio dell’adenovirus AAV-8, i cui geni virali sono stati sostituiti da spezzoni di DNA che codificano per la produzione di VRC07, un bNAb ampiamente utilizzato negli studi per sviluppare il trattamento, la PrEP e una cura per l’HIV.

In uno studio sulla sicurezza di fase I, il vaccino è stato somministrato a otto volontari HIV-positivi. Ai primi tre volontari è stata somministrata una dose di 50 miliardi di genomi vettoriali per chilogrammo di peso corporeo. Tre mesi dopo, ad altri due volontari è stata somministrata una dose di vaccino contenente dieci volte il numero di vettori per chilogrammo (500 miliardi). Agli ultimi tre volontari è stata somministrata una dose cinquanta volte superiore alla dose originale (2,5 trilioni di vettori/kg).

Tutti i volontari a cui è stato somministrato il vaccino hanno prodotto anticorpi VRC07, in misura maggiore o minore. Tuttavia, trattandosi di uno studio sulla sicurezza, non sappiamo ancora se i livelli di VRC07 prodotti siano sufficienti per un effetto antivirale.

Questo studio è la prima prova che un vaccino può indurre la produzione di bNAb negli esseri umani.

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Atlanta, gli MSM neri hanno il 60% di probabilità in meno di raggiungere la soppressione virale rispetto ai bianchi
Da uno studio condotto ad Atlanta, Stati Uniti, è emerso che gli uomini che fanno sesso con gli uomini (MSM) di etnia nera raggiungono la soppressione virale in molti meno casi rispetto ai bianchi, con un 60% di probabilità in meno.

L’Engagement Study, studio di coorte prospettico condotto a livello locale, ha raccolto dati clinici e comportamentali su 398 bianchi e neri HIV-positivi di Atlanta tra il 2016 e il 2017. Il campione era composto per metà da neri; il 33% dei neri e il 19% dei bianchi non avevano raggiunto la soppressione virale.

L’età è stato un fattore non modificabile che ha contribuito alle differenze rilevate: gli uomini più giovani hanno infatti raggiunto in meno casi la soppressione virale. Altri fattori, invece, erano modificabili, tra cui accesso all’assistenza sanitaria, reddito, buone condizioni abitative e uso di marijuana. L’insieme di tutti questi fattori rappresentava completamente la disparità razziale.

Durante la presentazione, il dottor Justin Knox della Columbia University ha concluso: “Se vogliamo seriamente ridurre le disparità razziali nei risultati del trattamento contro l’HIV, questo studio dimostra chiaramente quali siano le opportunità per agire sui fattori modificabili che influenzano i risultati.”

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Immunomodulatore elimina le lesioni anali precancerose
Un farmaco attualmente approvato contro il mieloma (tumore del sangue) ha portato all’eliminazione delle lesioni anali precancerose causate dal papillomavirus umano (HPV) in uomini HIV-positivi e negativi, secondo un report presentato a CROI 2020.

Il cancro anale e il suo precursore, la displasia anale (crescita anomala delle cellule e dei tessuti) sono molto più diffusi tra le persone affette da HIV rispetto alla popolazione generale.

La fase II dello studio SPACE ha valutato l’efficacia del pomalidomide a basso dosaggio per il trattamento di lesioni anali di alto grado. Lo studio ha coinvolto 10 uomini HIV-positivi e 16 uomini HIV-negativi. A tutti i partecipanti erano state diagnosticate tramite biopsia lesioni di alto grado 3 presenti da almeno un anno e con una durata mediana di tre anni.

Poco più del 50% dei partecipanti allo studio ha raggiunto un’eliminazione totale o parziale delle lesioni anali di alto grado grazie alla somministrazione orale a basso dosaggio di pomalidomide per sei mesi, percentuale salita al 63% dopo altri sei mesi di follow-up successivi al trattamento.

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